Il ricordo a 31 anni esatti della scomparsa del direttore dell’allora Telegrafo mentre sta per abbattersi la scure su 35 poligrafici. Un giornale che non trova pace
- di Sandro Lulli
Sono trentuno anni che ci ha lasciati. Mio padre Carlo spirò alle 18 del 14 novembre del 1993. Cinque giorni dopo avrebbe compiuto 72 anni. Era domenica, fresca ma soleggiata: proprio come oggi. Nel ricordarlo, assieme a mio fratello Stefano (mia madre Maria e mio fratello Franco non ci sono più) parlando della crisi che attanaglia il Tirreno – del quale mio padre fu direttore per dieci anni quando si chiamava Il Telegrafo – ci è venuto in mente un episodio inedito, sconosciuto. Ma emblematico, del quale andiamo orgogliosi.
Tutto successe di domenica: guarda che caso. Sì, una domenica del 1974. Appena ci sediamo a tavola squilla il telefono. Sono le 13. Va mio padre: “Pronto? Ah, Cavaliere, buongiorno a lei, mi dica…”. Attilio Monti, petroliere, industriale, nonché editore di Nazione e Resto del Carlino, Tempo e appunto Telegrafo (di cui mio padre era direttore dal 1968) non aveva mai chiamato a casa e se lo faceva adesso non doveva essere per cose di poco conto. Infatti, sentimmo il gelo.
Poi la risposta di mio padre: “Eh! Cosa? No Cavaliere, io un provvedimento del genere contro dei colleghi non l’avallerò mai. Guardi – disse – fa prima a licenziare me…”. Bianco in volto tornò a sedersi. Nessuno toccò cibo. I giornalisti restarono al loro posto. Qualche mese dopo Attilio Monti fece sapere a mio padre che aveva apprezzato molto il suo coraggio e la sua onestà e gli offrì una assunzione di rilievo e ben remunerata al Resto del Carlino (credo allora diretto da Enzo Biagi) ma ricevette un altro no.
“Cavaliere il mio posto è a Livorno, non lascerò mai il Telegrafo”. Un anno dopo Monti liquidò tutti, la città si mobilitò anche a livello politico sindacale. L’allora sindaco Nannipieri fu esemplare. Prima ci fu l’occupazione dei dipendenti del Telegrafo della sede di viale Alfieri (quella che adesso, notizia di qualche giorno fa, è in vendita al prezzo di 3 milioni e 200 mila) dopodiché nacque la Cooperativa autogestita e il Telegrafo per altri due anni sopravvisse senza cedere il passo al quotidiano La Nazione (come avrebbe voluto l’editore).
Poi dal gennaio 1978 il Telegrafo fu acquistato dal gruppo Espresso-Repubblica: da allora si chiama Il Tirreno, la vecchia testata è rimasta di proprietà della famiglia Monti: hanno provato due volte a rilanciarla ma senza successo. Casi della vita, esattamente il 14 novembre del 2019 il gruppo Gedi – che era subentrato all’Espresso-Repubblica-Finegil – annunciò la volontà di licenziare 30 poligrafici e 11 dipendenti della società di pubblicità Manzoni. Poi Gedi cede a Sae. Calano le copie, aumenta la stretta.
In verità erano molti anni che spiravano venti di crisi. I direttori si avvicendavano: l’intento sempre quello di tagliare, risparmiare, licenziare. Nessuno che lasci il segno, entri nel cuore dei lettori. Un vero gentiluomo è stato Luigi Bianchi, ex redazione romana del Corriere della Sera: giornalista eccelso, uomo gentile, rispettoso, penna raffinata.
Lasciò Il Tirreno nel 1993, si dedicò ai suoi studi filosofici dopo aver rilanciato il giornale. E’ scomparso a 94 anni, nel febbraio del 2019. Anche con lui dodici anni radiosi: si fece apprezzare dalle maestranze e dai lettori come aveva fatto Carlo Lulli, che però nel Telegrafo aveva iniziato da cronista, ricoprendo tutte le cariche di redazione. Poi tanto cinismo aziendale abbinato all’arte del dividere, del perseguitare; del trasferire.
Giornalisti e poligrafici solo numeri. Però con Espresso-Finegil e poi Gedi direttori con auto aziendale, valigette in pelle, cravattine: un saluto al venerdì e li rivedevi il lunedì o il martedì. Più d’uno, col chiodo fisso: “delivornesizzare”, perché dovevano portare i loro di fiducia. Adesso altri 35 poligrafici stanno per essere tagliati, spostati in Sardegna, a Sassari, giornale Nuova Sardegna: una traghettata e via. Per quello che conta vi sono vicino. Speriamo in un moto d’orgoglio di sindacati e ambienti politici e amministrazione; anche del Governo.
Tuttavia, al momento, più d’uno che quarant’anni fa ha lottato per far sopravvivere la testata – equamente distribuiti tra giornalisti, amministrativi e poligrafici e li ho tutti dinanzi agli occhi -, si rivolterà nella tomba. Carlo Lulli, il tuo esempio come bussola, anche a 31 anni dalla tua scomparsa. Ti portiamo nel cuore: chi ti ha conosciuto non può non farlo.
Ps: grazie al direttore de L’Osservatore di Livorno, Riccardo Repetti, ex collega del Tirreno, uno di quelli sulla cui pelle brucia ancora il licenziamento ma che adesso vive una nuova vita col servizio alla SVS e foto. Grazie, Riccardo, per aver pubblicato l’articolo.