Inverno demografico e classi dirigenti inadeguate; gli oscuri mondi del cinema e dei libri stanno mordendo la nostra realtà
Giusto pochi giorni fa mi è capitato di rivedere un film di Alfonso Cuaròn del 2006, I figli degli uomini; ebbene, se vi è capitato di vederlo e ancora ve ne ricordate, forse intuirete la semplicissima analogia, se non l’oscuro presagio, che lega questa storia alla nostra attualità.
Tratto dall’omonimo romanzo di Phyllis Dorothy James (Children of men, 1992), la trama si sviluppa a partire dalla catastrofica premessa del globale annullamento della fecondità umana e dalle drammatiche conseguenze dell’assenza di bambini nel mondo. Suddetta autrice, vissuta nell’epoca d’oro della fantascienza letteraria (gli anni ‘50, per intendersi) può a questo punto essere elevata tra coloro i quali hanno saputo leggere il futuro tra le righe di questo genere (Arthur C. Clarke tra questi, tanto per citarne uno), poiché la storia narrata si svolge -udite udite- nel 2021. Ciò che differenzia la chiave di lettura dalla nostra realtà, tuttavia, sono le ragioni: il romanzo non fornisce infatti alcuna spiegazione logica all’immane disastro che travolge l’umanità, permeando di sottotesto biblico l’intera narrazione a suggerire una sorta di castigo divino. Noi, negli stessi anni in cui si svolge la storia della James, possiamo invece toccare con mano i motivi di questa brutale inversione demografica che tanto vicini ci porta alla disperata esistenza condotta dai personaggi del libro e del film; noi, non le classi dirigenti, apparentemente.
Mondi oscuri e realtà
Moltissime trame distopiche e fantascientifiche nascono da preludi sociopolitici terrificanti: gli Imperi tirannici di Dune e Star Wars o le Corporazioni di Blade Runner e Alien. In tutti questi casi, la regola comune rimane la stessa: l’accentramento del potere nelle mani di pochi.
Se questo paragone rispetto ai nostri tempi pare eccessivo, basti pensare all’abisso salariale che intercorre tra chi effettivamente produce e chi dirige, e i ruoli che ne conseguono. Premettendo l’esistenza di casi virtuosi, vediamo spesso casi di grandi aziende capaci di fatturati milionari ricorrere alle più inique forme di somministrazione del lavoro, regolarmente garantite dalla sudditanza delle classi politiche di ogni colore. La parola d’ordine è tagliare e ancora tagliare, laddove s’incrementano stipendi e bonus di ad e consociati per cifre paradossali, il tutto col benestare di azionisti in una cerchia nella quale nessuno crea e nessuno restituisce alcun beneficio all’azienda o alla società intera, se non per mezzo di una tassazione spesso evasa in stretta o larga parte o fraudolentemente taciuta e spedita altrove che in Italia. Tutto sotto il silenzioso assenso della trentennale politica di chi vuole il ricco più ricco.
Nel frattempo ai piani bassi, laddove s’immagina che qualcosa venga pur prodotto allorché un provento sia generato, c’è chi fatica e molto spesso mette a repentaglio la propria salute per molte ore dei propri giorni, e quel qualcuno non ha voce in capitolo sui sopracitati bonus o sulla propria condizione. Insomma, è un lento revival dell’età industriale.
A differenza dell’età industriale, in cui vivo era il sentimento proletario, oggi ci si aspetta ragionevolmente qualcosa in più, e basta chiedere a chi è coinvolto quanto sia sufficiente equiparare le condizioni lavorative e salariali ai trend economici odierni. Tanto basterebbe per dar figli a chi ne vuole.
La vittoria della rassegnazione
Il processo che ci ha portato al risultato dei giorni nostri è probabilmente iniziato intorno all’anno in cui I figli degli uomini è stato pubblicato, nei primi anni ‘90. Il benessere che fino a quel momento il mondo occidentale aveva vissuto stava già dando i primi timidi segnali di declino, ma finché ci fosse stato di che spartirsi non v’era ragione alcuna per cui preoccuparsi; così arrivò in fretta il 2001 col suo 11 settembre e ancor più velocemente il 2008 con la sua recessione globale, sancendo in maniera definitiva la morte delle speranze per le generazioni a venire. Da quel momento in poi avremmo visto gradualmente e inesorabilmente sgretolarsi tutti quei diritti e quelle possibilità di cui avevano goduti i nostri genitori e ancor più i genitori loro, lasciando a noi nati dagli ‘80 in poi un piatto sporco con qualche briciola qua e là, a chiamare “fortunato\a” chi quelle briciole riusciva ad accaparrarsi. Passano così gli anni delle scuole che vengono giù a pezzi e delle offerte di lavoro mendaci (certo ancora in molti ricorderanno i famigerati “porta a porta”), arrivando così al primo assaggio di orrore distopico, la pandemia, e al secondo, ancor più attuale, la guerra alle porte d’Europa che rischia di globalizzarsi con tirannie di ogni dove che ringhiano al riscatto contro l’egemonia del subdolo mondo occidentale. In mezzo noi, confusi e menomati dei diritti di cui ormai solo in pochi possono godere, delle possibilità ormai garantite a coloro che si sono accentrati ogni bene molto al di sopra di quanto sarebbe necessario per un’umana vita.
E in tutto questo, un governo che promuove la natalità attraverso l’istituzione dell’omonimo Ministero il quale parla di bollini rosa, di bonus scolastici (una tantum? chissà) e di consultori: insomma, di faccende che nulla hanno a che vedere col reale e dilagante problema dell’assenza di lavoro e della precarietà e insufficienza salariale di quel che c’è. No, non entrerò nel merito del Rdc poiché è tutt’alra questione: sottolineerò invece quanto sia miopico non concepire lo stato del lavoro italiano come la basilare causa della denatalità. Come potrebbe mai chiunque credere possibile la costituzione di una famiglia quando vengono negati i più basilari mezzi di sostentamento?
Ha ben ragione questo esecutivo a ripetere come un mantra che si è insediato da poco, che ha ereditato decenni di politiche scialbe e affatto lungimiranti, e adagiandosi in questa sua attenuante dimostra la stessa alienazione dalla realtà che ha contraddistinto gli elementi che si sono avvicendati negli ultimi trent’anni; la vox populi, d’altra parte, è in larga parte sollevata da masse inistruite e avvezze ad ascoltare il grido più sonoro, alleggerendo quindi il peso che ha l’opinione del comune cittadino nella vita politica di questa democrazia. Eppure il problema è ben più che evidente, tanto da non aver bisogno neppure di una sollevazione; è tematica di primo piano sui giornali, sui social, su ogni piattaforma, invece no, occorre un Ministero apposito, quello della natalità, per frenare la tendenza anziché ricostruire il diritto lavorativo su cui inevitabilmente l’esistenza stessa di una famiglia si avvita. Intanto, la mia generazione è stata dimenticata e già a 35 anni, l’apice delle forze e verosimilmente con un discreto bagaglio di esperienza, si è troppo “vecchi” per risultare appetibili come lavoratori, perché contrattualmente troppo onerosi. Non ci si stupisca dunque se infine la rassegnazione vince sulla continuazione della specie.