Achille Occhetto non si è fatto attendere. arriva e intorno a sé suscita sentimenti contrastanti di nostalgia e di domande su un fatto storico il cui eco pervade ancora la politica , la saggistica e le pubblicazioni.
“Lo scioglimento del PCI, una scelta tra sentimento e la ragione” ne hanno parlato Achille Occhetto e Diego Bianchi “Zoro”. L’incontro promosso dall’Associazione 21 insieme al Comune nell’ambito di appuntamenti “Il centenario del Partito Comunista d’Italia Livorno 1921-2021”. Coordinamento della giornalista Eva Giovannini.
Achille Occhetto non si è fatto attendere. arriva e intorno a sè suscita sentimenti contrastanti di nostalgia e di domande su un fatto storico il cui eco pervade ancora la politica , la saggistica e le pubblicazioni.
Hanno parlato Achille Occhetto e Diego Bianchi, incalzati dalle domande della giornalista Eva Giovannini. L’Arena Fabbricotti in religioso silenzio ha partecipato con empatia alla rievocazione di un passato che rivive in frammenti nelle nuove generazioni. Così come ha esordito il sindaco Luca Salvetti.
“E’ necessario un ragionamento complessivo su tutto quello che è stato il PCI. Personalmente ho il ricordo trasmesso da mio nonno dello “smarrimento del dopoguerra, delle lotte operaie” e della svolta di Occhetto di sciogliere il PCI in un clima di generale consenso al 70 per cento. Era il momento di cambiare di fare un salto in avanti. “Può cambiare anche il nome?” , le chiesi sul palco dell’Odeon quando venne a Livorno.
UN COLPO DI TEATRO
Un secolo fa a Livorno nasceva il Partito comunista italiano dalla scissione con i socialisti di Filippo Turati, con l’obiettivo di guardare alla Russia della Rivoluzione leninista. Una storia importante, che continua a far discutere.
La sua stessa nascita, a Livorno il 21 gennaio 1921, è stata molto teatrale. Come tutta la storia del Pci che ancora oggi, un secolo dopo, fa dividere e discutere. Con un profluvio di libri, saggi e pubblicazioni. C’è chi lo rimpiange, magari dopo averlo molto criticato o non avendolo neppure conosciuto. C’è chi candidamente lo ignora e lo confonde col Personal computer (Pc). E c’è chi invece continua a considerarlo, con la sua vocazione a dividersi, uno dei tanti mali della nostra storia recente di cui non riusciamo a liberarci.
Anche Emanuele Macaluso, storico dirigente comunista (e tra i più apprezzati direttori de l’Unità), morto a 96 anni proprio due giorni prima del centenario del Pci, non riusciva a darsene pace. Il settarismo era il suo tarlo, come lo era il degrado della politica italiana. «Questo governo non è all’altezza, ma non ha alternative“.
Diego Bianchi precisa come la scissione sia ricorrente nella sinistra, a partire dai movimenti operai, ma anche nella destra si scindono e apparentemente ne traggono beneficio. Nato da una scissione , il PCI , sembra portare con sé quella vocazione al settarismo che ha spesso caratterizzato la sinistra italiana.
«Non so se dividersi sia un destino della sinistra» spiega Achille Occhetto, 84 anni, ex segretario del Pci, passato alla storia anche per aver fatto togliere a tre giorni dalla caduta del Muro di Berlino, il 12 ottobre 1989, la parola “comunista” dal nome del Partito. «Non so darne una vera spiegazione. Questo è il Pci: da un lato c’è un forte senso di appartenenza, dall’altro questi drammatici elementi di fuga che lasciano cicatrici indelebili Ci sono delle scissioni plausibili come quella tra socialisti e anarchici nel 1882. Erano due visioni diverse inconciliabili. Mentre quella da cui nacque il Pci nel 1921 aveva una ragione oggettiva che nasceva dall’urgenza della frazione comunista di rimarcare le differenze emerse dopo la rivoluzione d’ottobre. Ma in quel congresso pesano due gravi limiti: non aver capito che il fascismo era ormai alle porte e di aver fatto presentare l’ordine del giorno da un delegato bulgaro, ovviamente molto distante dalla realtà italiana».
Ancora adesso, si diceva, il Pci fa discutere.
Non solo sentimentalmente, ne avvertono l’assenza. Una domanda sempre d’attualità è quella sulla mancata “svolta” che avrebbe potuto trasformare il Pci in un partito socialdemocratico. Come sarebbe cambiata la nostra storia? E perchè i dirigenti del Pci hanno impiegato così tanto tempo a prendere le distanze dall’Unione sovietica? Opportunismo? Paura di disorientare i militanti? Perfino Berlinguer, che pure disse di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello occidentale, ebbe delle titubanze. Perchè?
«Perchè non era facile staccare il partito dal mito da cui era nato, quello della rivoluzione d’ottobre. Il legame storico era così forte che si temeva di perdere consistenza», osserva ancora Occhetto. «Però, nella storia del Pci, ci sono stati più partiti: quello di Togliatti è stato molto diverso da quello precedente. Prima il motto era: facciamo come in Russia. Poi, dal 1945, è diventato quello di seguire una via italiana. La vera occasione per fare la svolta, fu nel 1956 dopo i fatti di Ungheria. Invece ci fu la rottura con i socialisti che avevano ragione. Dopo si è andati avanti nella continuità. Si è molto sperato in Gorbaciov ma alla fine il suo progetto collassò con l’Unione sovietica».
Eva Giovannini: il PCI porta in sè un aggettivo, Italiano, come è stato vissuta l’appartenenza italiana?
Abbiamo vissuto la nostra appartenenza italiana con fierezza, anche se il PCI ha avuto momenti opachi. Cosa significava? Costruire una via italiana della democrazia, un’identità da esprimere in un progetto. In grandissima parte siamo riusciti ad esprimerlo, ma esistevano legami di ferro con l’Unione Sovietica e il processo di destalinizzazione avveniva senza sviluppare un processo di democratizzazione. Togliatti trovò interessanti le mie idee di rinnovamento interno contro la stalinizzazione. La mia missione era quella di rinnovare internamente il partito italiano. Non era nazionalista.
A proposito: come andò alla Bolognina? Quel cambio del nome fu fatto per necessità?
«Più che per necessità fu per prospettiva politica. Alla vigilia della caduta del Muro ero stato a Bruxelles per confrontarmi con dei dirigenti socialisti. Eravamo vicini sui principi generali ma come comunisti non si poteva aderire alla cultura del socialismo europeo. C’era la questione del nome. Mi chiesero: ma perché non lo cambiate? Risposi che era difficile. Quando poi alla Bolognina dissi che tutto doveva cambiare, la stampa scrisse che sarebbe cambiato anche il nome del partito…Non mi fecero un gran favore perchè molti militanti s’infuriarono. Comunque, non sono pentito, anzi. Ripensandoci, dico che ho fatto un atto d’amore verso la storia del comunismo italiano», conclude Occhetto.
Tanti limiti, molti ritardi e “svolte“ più subìte che attuate con determinazione. Però, oltre alle sue contraddizioni, il Pci, lascia un forte senso di nostalgia, forse più sentimentale che politica. «È il sintomo di un vuoto». «Manca una sinistra politica con una propria visione critica della società e costruttiva di un futuro possibile. Lo si vede anche in questi giorni. Teorizzando l’inesistenza della classi sociali non si è vista la sofferenza degli ultimi e dei penultimi. Neppure la questione ecologica. E non si è compresa bene la rivoluzione femminile e nemmeno quella digitale.
Il Pci è morto con il crollo dell’Urss? Cosa vive ancora di quell’idea?
«Crollò l’esperienza del burocratismo sovietico privo di democrazia, non il bisogno di correggere e trasformare un modo di essere dello sviluppo economico e dell’assetto sociale che mostra con ogni evidenza i suoi mali profondi anche nella guida dell’Occidente».
Il Pci è nato da una scissione, la storia della sinistra italiana è una storia di continue divisioni. Anche nella crisi di questi giorni c’è qualcosa di quel retaggio?
Il movimento socialista e comunista conobbe scissioni innumerevoli mosse da contrapposizioni ideali e politiche dovute a differenze culturali e umane divenute talora anche contrasti personali», ribadisce Occhetto. Oggi c’è una crisi diffusa della liberal democrazia in cui si innestano, qui da noi, i calcoli deteriori e gli interessi personali.
Anche Ezio Mauro, per 20 anni direttore di Repubblica e autore della “Dannazione”, un libro uscito da pochi giorni in cui si rievoca come lo strappo con i socialisti abbia per sempre segnato la storia del Pci, coglie quel senso di vuoto che ha poi lasciato il partito di Gramsci e Togliatti. «È una assenza – precisa Mauro – che ha ben espresso Norberto Bobbio, mio professore di filosofia del diritto. Un intellettuale che pure non aveva risparmiato critiche anche a Berlinguer. Bobbio ha detto: è adesso? Adesso, senza il Pci, chi si farà carico di questa speranza? Credo che questa domanda non sia mai stata così attuale». Continua Mauro:
Occhetto ha scritto una sua storia sentimentale del Pci in cui mette in luce le grandi illusioni di quella stagione. ma anche molte delusioni.
“Però la mancanza del Pci oggi si sente. Mi manca il cuore, l’anima, i suoi valori. Tutto questo non c’è più ed è un guaio. Ora siamo in un quadro di liberalismo democratico, ma tutte ciò non basta a ritrasmettersi quel senso di sentimento perduto. Nel Pd questo sentimento non lo ritrovi…“
CONCLUDENDO CON UNA FRASE DI SERGIO STAINO:
Penso ai grandi leader…. A Massimo D’Alema afflitto dalle sue megalomanie. A Bersani, bravo certo, ma con quel suo partitino… Non parliamo di Renzi, cinico inguaribile. O dell’attuale Pd che taglia i parlamentari per correre dietro ai grillini. Dei grandi leader salvo Berlinguer e poi Occhetto, che ha avuto molto coraggio. Io ero titubante, più per questioni affettive che razionali. Ma in verità, dopo la Russia e la Cina, la parola “comunismo” era diventata impronunciabile. Peccato, perchè la sinistra ha fatto moltissimo per costruire un popolo consapevole, e penso anche all’idea di Europa. Il Pci con le sue sezioni, e la sua presenza nel territorio, ha costruito una generazione di italiani colti e preparati. Li ha educati a leggere a imparare. Dove vado adesso? Dove vado?». ( Sergio Staino)
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